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SHRINKFLATION: INFLAZIONE CON IL TRUCCO

La famosa casalinga di Voghera conosce tutti i prezzi dei prodotti che acquista. Sa quando c’è un’offerta vantaggiosa ed è il caso di fare scorte oppure c’è stato un rincaro ed è meglio rinviare l’acquisto a tempi migliori. Non tutti i consumatori, purtroppo, sono così attenti e vigili.

Da qualche anno, però, i produttori hanno deciso di aumentare i prezzi in modo nascosto, con un trucco, mettendo in crisi anche la massaia più accorta.

E’ la tecnica di marketing della shrinkflation, parola complicata ottenuta dalla fusione di due termini inglesi, ovvero “shrinkage” (contrazione, restringimento) o anche “to shrink” (restingersi) e “inflation” (inflazione). Una pratica commerciale che ridimensiona, restringe il peso consolidato di prodotti di largo consumo per celare l’inflazione, ossia l’aumento del prezzo.

Non c’è nulla di male, anzi è un vantaggio per il consumatore, poter avere lo stesso articolo con quantitativi differenti. Il cliente è contento di trovare una bibita in confezione da 500 ml, 1 litro, un litro e mezzo e 2 litri. Ma che senso ha fare una bottiglia da 500 ml e una da 450 ml se non per confondere il consumatore? Se poi i litri sono scritti a caratteri minuscoli e bisogna organizzare una caccia al tesoro per trovarli o, peggio ancora, la bottiglia da 450 ml è grande esattamente come l’altra, allora il pasticcio è completo. Insomma, il prezzo è lo stesso o magari addirittura un po’ meno, peccato che con la cura dimagrante il bene sia diventato in realtà più costoso.

Questa pratica c’era già da anni. L’esempio era quello dei fazzolettini di carta, con i pacchetti passati da 10 a 9 fazzoletti. In pratica, in una confezione da 10 pacchetti il trucchetto consentiva di farne sparire uno. Un po’ come le bollette telefoniche da 28 giorni. Abbonamento uguale, ma passando dal canone mensile a quello da 28 giorni c’era un aumento implicito e nascosto dell’8,63%.

Ora, però, questa tendenza è peggiorata, probabilmente per fronteggiare la crisi, l’aumento dei costi di produzione e l’inflazione galoppante, in modo da nascondere il rincaro e non perdere clientela.

La “sgrammatura” dei prodotti è arrivata al cibo simbolo del made in Italy, la pasta, non più solo in pacchi da 500 grammi e da 1 Kg, ma anche da 400 grammi. Dal tè con 20 bustine invece di 25 alle bibite da 450 ml al posto di quelle da 500 ml, gli esempi si sprecano.

Tra gli articoli a cui il consumatore deve stare più attento ci sono il caffè e le mozzarelle, perché la riduzione di peso, rispettivamente da 250 a 225 grammi e da 125 a 100 grammi, è accompagnata con un numero molteplice di confezioni. Il caffè da 225 si trova in pacchi da 2, 3, 4 o 5, le mozzarelle in buste da 3 e da 4. Cosa cambia?

Che ad esempio il cliente potrebbe essere indotto a ritenere che la confezione da 4 mozzarelle sia più conveniente di una da 3, essendo il prezzo appena superiore e avendo una mozzarella in più, mentre in realtà quella da 3 è molto più conveniente perché da 375 grammi (125 grammi x 3) mentre quella da 4 mozzarelle, pur avendone una in più, è in realtà molto più cara essendo da 400 grammi (100 grammi x 4), ossia appena 25 grammi in più, il 6,7% in più e non il 33,3% come farebbe presupporre l’aggiunta di una mozzarella. Insomma, i calcoli si complicano e il confronto dei prezzi, alla base della concorrenza e presupposto per poter risparmiare, diventa più complesso.

Una pratica commerciale è scorretta, quando è idonea a falsare il comportamento economico del consumatore. In particolare, per il Codice del Consumo, è ingannevole quando induce in errore il consumatore medio riguardo al prezzo effettivamente praticato, falsandone il processo decisionale, invogliandolo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso, ad esempio inducendolo ad acquistare un prodotto rispetto a un altro perché ritenuto erroneamente più conveniente oppure perché considerato dello stesso contenuto e peso rispetto a un altro con lo stesso prezzo quando in realtà il peso è inferiore e non è quello solitamente praticato dalla quasi totalità delle aziende, da decenni, ma, in modo singolare e anomalo, stranamente inferiore.

Per questo l’Unione Nazionale Consumatori (Unc) ha presentato un esposto all’Antitrust, affinché sia accertata la correttezza della pratica, in particolare quando il peso viene ridotto di poco rispetto a quello standard o viene mantenuto un confezionamento della stessa grandezza, pur riducendo il quantitativo interno del prodotto. Un esempio classico è il pandoro o la colomba da 750 grammi che hanno lo stesso incarto di quelle da 1 kg.

Troppe volte apriamo una confezione e restiamo delusi, specie se si tratta di un regalo fatto.

Spesso, poi, questi beni smagriti sono anche quelli in offerta nei supermercati, ampliando il rischio che nella fretta si cada in errore.

L’Unc ha chiesto anche al legislatore di intervenire, depositando in Senato le osservazioni al disegno di legge sulla concorrenza, così da poter frenare il dilagare di questo fenomeno. Tra le richieste, quella di imporre al produttore di mettere ben in evidenza il peso anomalo, nel lato principale della confezione e non nella parte inferiore, nascosto magari tra decine di altre scritte.

Ma che può fare il consumatore nel frattempo? Confrontare i prezzi reali. Non fermarsi al prezzo di vendita, ma abituarsi a guardare sempre anche quelli al chilo e al litro che il venditore deve per legge a indicare.

L’art. 14 del Codice del Consumo, ossia del D.Lgs. n. 206 del 2005, obbliga, infatti, il commerciante “al fine di migliorare l’informazione del consumatore e di agevolare il raffronto dei prezzi” ad indicare, “oltre alla indicazione del prezzo di vendita” anche “l’indicazione del prezzo per unità di misura“, ossia al chilo, al litro, per la quantità di un metro, metro quadrato o cubo, per una singola unità di quantità diversa, a seconda del bene. Le eccezioni sono pochissime. Non deve essere indicato quando è identico a quello di vendita, per i prodotti commercializzati sfusi che possono essere venduti a pezzo o a collo, per quelli di diversa natura posti in una stessa confezione, per i gelati monodose.

Se il commerciante omette di indicare il prezzo per unità di misura è soggetto alla sanzione prevista dall’articolo 22, comma 3, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, pari a minimo 516 euro.

Certo, guardando anche i prezzi al chilo e al litro fare la spesa diventa più lungo e faticoso. Un tempo da dedicare alle compere quotidiane che pochi hanno a disposizione. Senza contare che talvolta sono scritti sul cartellino con caratteri minuscoli rispetto a quello di vendita, tanto da richiedere a chi ha più di 60 anni l’uso di occhiali. Ma questo sforzo si può fare almeno per i prodotti più a rischio, più sospetti, specie se sono in offerta.

Insomma, la casalinga di Voghera deve cominciare a memorizzare i prezzi al litro e al chilo, come quando acquista frutta e verdura.

Articolo realizzato nell’ambito del Programma generale di intervento della Regione Lombardia con l’utilizzo dei fondi del Ministero dello sviluppo economico D.M. 10.08.2020